18 settembre 2019 – Corriere del Trentino

«Lavori qualificati contro la povertà»

«I dati sono particolarmente preoccupanti perché dalla crisi del 2008 si è verificata una crescita esponenziale del numero delle persone a un passo dalla povertà». Il segretario generale della Uil del Trentino Walter Alotti suona l’allarme dopo i dati pubblicati dall’Ispat. Secondo l’Istituto di statistica della provincia di Trento, infatti, il 20,6% dei residenti in Trentino è a rischio di povertà o esclusione sociale. «Sicuramente subiamo ancora l’onda lunga della crisi, ma non è solo questo. Stiamo assistendo ad una polarizzazione del lavoro — gli fa eco Franco Ianeselli, segretario provinciale della Cgil — Esistono tanti lavori ad alto contenuto di conoscenza che in Europa sono ben retribuiti, mentre in Trentino lo sono meno. Opposti a questi ci sono lavori cosiddetti “poveri”, come quelli dei servizi alla persona o di pulizia. Queste occupazioni ti tolgono dalla categoria dei disoccupati, ma sono pagati talmente male che ti lasciano comunque a rischio povertà».
Il problema risiede quindi nella qualità del lavoro, come sottolinea il segretario della Cisl trentina Lorenzo Pomini: «Il costo della vita nella nostra Regione è alto e i contratti nazionali non garantiscono a tante persone una busta paga sufficiente a metterle al riparo. Per risolvere questo problema è essenziale la contrattazione di secondo livello, altrimenti basta un breve periodo di disoccupazione o di cassa integrazione obbligata per fare cadere tante famiglie sotto la soglia di povertà».
La conseguenza è che la categoria dei poveri è eterogenea: si passa dai giovani che faticano ad entrare nel mondo del lavoro, alle donne sole con figli a carico a persone di mezza età che perdono il lavoro improvvisamente. Come è possibile far uscire dalla categoria dei poveri queste persone? «Servono politiche di formazione continua, non solo per i più giovani. Sappiamo infatti che la rivoluzione tecnologica sta continuando a far evolvere il mondo del lavoro e farà scomparire alcuni posti di lavoro creandone di nuovi. Dobbiamo farci trovare pronti», spiega Ianeselli.
Misure assistenzialiste, invece, possono essere utili per un breve periodo e solo se finalizzate al reinserimento nel mondo del lavoro. «Politiche assistenzialiste esistono in Trentino dal 2008, con il reddito di garanzia che è più forte del reddito di cittadinanza. Il punto è che lo abbiamo legato a delle politiche attive che stimolino le persone a non sedersi, con il rischio di non riuscire più a rientrare nel mercato del lavoro», dice Pomini. Per Alotti, invece, il futuro porterà ad una rivoluzione completa degli orari lavorativi: «Sarà inevitabile ridurre il numero delle ore che ogni persona dovrà passare a lavorare. La sfida è riuscire a tenere dei salari adatti a mantenere uno livello di vita sufficiente». Tutti e tre i segretari, invece, sono concordi nel dire che il salario minimo di cui si sta discutendo possa essere utile solo nei casi in cui i contratti nazionali non coprano già quelle mansioni.
«Posso testimoniare — afferma don Cristiano Bettega, delegato dalla Diocesi trentina alla guida della Caritas — che il disagio è aumentato e che queste stime non fanno altro che confermare una situazione che si conosceva già». Dal suo osservatorio la povertà la vede attraverso i volti delle persone, oltre le cifre della statistica: «Si parla in generale di povertà, ma dentro questa etichetta ci sono situazioni reali, una molteplicità di casi che la Caritas segue quotidianamente». Uomini e donne, famiglie intere, che non corrispondono al cliché del reietto: «Non ci si immagini che siano barboni, che siano solo quelli che fanno l’elemosina e che stazionano nei parchi della città. La persona povera che si rivolge a noi non è più il classico senzatetto, quelli che facilmente si notano in centro storico, coloro che frequentano le panchine e i centri di accoglienza. Ovviamente ci sono anche questi, con le loro fragilità — spiega il sacerdote — ma ci sono moltissime altre persone che passano inosservate, la cui povertà è meno visibile, di cui non ci si accorge se non nel momento che si rivolgono ai servizi o direttamente alle strutture. Perché non riescono a pagare una rata del mutuo, una bolletta, l’affitto della casa o che non riescono a portare in tavola il cibo». Per queste persone, spiega Bettega, «manifestare il loro stato è più difficile, spesso per motivi di vergogna e di imbarazzo». A differenza dei cittadini immigrati, «per loro la povertà è una condizione di normalità», i poveri italiani sono più restii alla richiesta di aiuto.
Don Cristiano Bettega non ha la ricetta utile alla soluzione. «Non sono un sociologo», ribadisce. Non si addentra sui temi di politiche di welfare da mettere in campo per contrastare e invertire i dati sulla povertà in Trentino. «Grandi idee e grandi progetti ben vengano, magari innovativi e che sappiano guardare lontano — afferma il delegato diocesano — ma io vorrei parlare da prete, ricordare a tutti che siamo una comunità. La povertà non è soltanto economica, è anche e soprattutto relazionale, e infatti siamo sempre più isolati l’uno dall’altro, fissi a guardare il nostro telefonino, incapaci di accorgerci del vicino che è solo, del familiare che non riesce a pagare le bollette, del disagio che soffre un amico».
Ecco, allora, la suggestione conclusiva per riannodare il filo. «Si deve ripartire anche da qui, dall’essere comunità», sottolinea don Bettega, suggerendo maggiore solidarietà.

 

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