04 agosto 2019 – Trentino
Immigrazione. Ora c’è repressione
Non siamo di fronte a un controllo dell’immigrazione, ma a una repressione disumana. Questo mi viene da dire, innanzitutto, rispondendo alle osservazioni che Renzo Gubert sul “Trentino” di ieri ha mosso a quanto ho scritto su questo giornale l’1 agosto commentando il terribile naufragio della scorsa settimana in cui sono morte 150 persone. Si può uccidere staccando la spina, quando la spina non deve essere staccata, ma si può uccidere anche non attaccando la spina, quando deve essere attaccata. Questo governo ha deciso di fare la guerra ai migranti e vieta di soccorrerli in mare quando rischiano di affogare. Vieta di attaccare la spina a degli esseri umani che stanno rischiando di morire e che poi muoiono a centinaia. Questa è pura barbarie, non è controllo dell’immigrazione. Vietare di salvare delle vite umane vuol dire calpestare un principio che fa di noi degli uomini e delle donne, e non delle bestie. Tutto il resto, tutti i ragionamenti sulle politiche migratorie, tutte le nostre opinioni, come quelle che Gubert espone con argomentazioni rispettabili, ma non condivisibili, vengono dopo. Prima c’è il dovere di salvare le vite umane. I pescatori del Mediterraneo, come è accaduto nel naufragio della settimana scorsa, interrompono la pesca se vedono delle imbarcazioni che stanno naufragando e corrono in soccorso di quegli esseri umani. I pescatori magari non sanno di diritto, non conoscono le politiche migratorie, ma sanno che non possono stare a guardare o voltarsi dall’altra parte, come il governo italiano ha imposto di fare non solo alle navi delle ong, ma perfino alla propria Marina militare, tanto è vero che ha bloccato i migranti su una nave della Marina militare che li aveva soccorsi. I pescatori hanno davanti degli esseri umani e rispondono con la legge che nessun parlamento ha scritto e nessun parlamento può cancellare, la legge del mare che dice di soccorrere sempre chi è in pericolo. La legge della vita, scritta da sempre nel cuore degli uomini. I naufraghi li dobbiamo salvare. LI DOBBIAMO SALVARE. Punto. Li portiamo in un porto sicuro, non in Libia perché è un lager, e ci sono montagne di prove che lo dimostrano. In un porto sicuro e poi decidiamo cosa fare. Ma li salviamo, LI SALVIAMO, e se rinunciamo a questo siamo perduti, noi con loro. Sono arrivati un governo (perché i Cinquestelle sono corresponsabili di questa barbarie) e un ministro, che sventola rosari e bacia crocifissi, che infangano quella legge, quel diritto che ci fa uomini e non bestie, e per infangare anche rosario e crocifisso. Qui non sono in gioco i miei sentimenti di umana solidarietà, cui accenna Gubert. È in gioco ben altro. Ma se Gubert alla solidarietà contrappone il bene comune di una comunità internazionale e di una comunità nazionale, io dico che non esiste bene comune di nessuna comunità, nazionale e internazionale, che non sia fondato sul principio di solidarietà. Scardinare questo principio, ridicolizzarlo, ridurlo a discutibile benevolenza, significa accettare che la vita delle comunità sia governata dalle leggi della giungla, quelle del più forte, quella di chi decide chi ha diritto di vivere e chi no. Non possiamo vivere insieme senza solidarietà. Ma non possiamo vivere innanzitutto senza giustizia. Gubert ricorda le infrastrutture lasciate dal colonialismo, anche quello italiano in Eritrea. Ma non ricorda i massacri italiani in terra d’Africa, le stragi di civili, l’uso dei gas sui villaggi, i campi di concentramento, le politiche razziali. Il colonialismo e lo schiavismo restano una vergogna dell’Occidente e una ferita mai rimarginata nel cuore dei popoli che l’hanno subita. Gubert ricorda le debolezze politiche e istituzionali dei paese africani. Ma l’Africa è un universo, ci sono tante Afriche, generalizzare è impossibile. C’è anche un Africa moderna e avanzata, e in fatto di tribù e di debolezze istituzionali, non è che noi italiani abbiamo molte lezioni da dare, con le mafie e le camorre che hanno in mano mezza penisola e mezza politica, da Sud a Nord, con la corruzione sempre dilagante nei partiti e nei consigli di amministrazione. E poi, abbiamo appena commemorato la strage di Bologna di cui dopo quattro decenni non sappiamo ancora chi sono i colpevoli, una delle tanti stragi che hanno insanguinato il nostro paese e che rivelano una debolezza istituzionale e il dominio di tribù feroci di ogni tipo nella nostra vita pubblica. Ciò detto, il colonialismo italiano nel corno d’Africa imponeva ai giovani africani di fermarsi alle scuole elementari. Non c’erano scuole superiori per loro, loro potevano imparare solo quel tanto da consentirgli di servire i nuovi padroni, e non di istruirsi al punto di diventare pericolosi. Questa era stata la politica, fra gli altri, anche del Belgio in Congo, e quando il Congo si rese indipendente, i suoi giovani laureati si potevano contare sulle dita di un paio di mani. Gli abbiamo lasciato le strade, ma perché servivano a noi. Ma li abbiamo privati delle vere strade per il futuro, quelle dell’istruzione, perché servivano a loro ed erano rischiose per noi. E il colonialismo di oggi, compreso quello italiano, continua a sfruttare l’Africa, perché i Paesi africani sono ricchi, di materie prime, di risorse energetiche, di terra, di prodotti di ogni tipo, ma i suoi popoli sono poveri. E questo accade con la nostra complicità, perché li riempiamo di armi, sosteniamo i loro regimi con accordi di ogni tipo. Noi facciamo affari anche con il regime dittatoriale dell’Eritrea mentre rifiutiamogli eritrei che scappano da quel regime. Questa è la realtà.
Quanto all’emigrazione che depaupera i paesi di partenza, questo è un vecchio discorso che, come Gubert ben sa, ha accompagnato sempre anche la nostra emigrazione. E’ una mezza verità. Perché, ed è anche la storia della nostra emigrazione, le rimesse degli emigranti, cioè i soldi che inviano ai loro Paesi d’origine, sono una fattore primario dello sviluppo di questi Paesi. Il “Dossier statistico immigrazione 2018” di Idos, dà ampio spazio ad alcuni eloquenti studi su questo tema della Banca Mondiale e del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo (Ifad). Nel decennio 2007-2016 le rimesse globali sono aumentate del 51%. Nel 2017, 200 milioni di migranti hanno spedito nei paesi d’origine 613 miliardi di dollari di rimesse, di cui 466 miliardi nei Paesi in via di sviluppo, contribuendo a sostenere circa 800 milioni di persone in tutto il mondo. Tale cifra ammonta a oltre tre volte, rivelano questi studi, l’insieme degli aiuti ufficiali allo sviluppo distribuiti annualmente a livello mondiale. Quasi la metà di queste rimesse degli emigranti è destinata alle aree rurali dove la povertà e la fame sono più diffuse.
Infine. Un’emigrazione governata è necessaria, ma questo governo non la governa, la demonizza. Non si tratta più di essere favorevoli o contrari all’emigrazione. Essa da decenni colma i vuoti demografici del nostro Paese e di tutti i Paesi del Nord del mondo benestante. Senza l’afflusso di migranti negli ultimi trent’anni il nostro Paese sarebbe morto. E senza i migranti la nostra economia crollerebbe, ma crollerebbe anche il nostro sistema di welfare di assistenza agli anziani e ai non autosufficienti. Un esempio, quello dell’edilizia. Lo ha ricordato Matteo Salvetti della Uil sul “Trentino” del 2 agosto. Gli operai di origine straniera nel settore edile della nostra provincia costituiscono il 36, 68% del totale degli addetti. Prima i nostri? Ci vadano i nostri, se vogliono, a fare i manovali e i muratori. Nessuno glielo vieta. Ma se non ci fossero gli stranieri l’edilizia si fermerebbe. Ma si fermerebbe l’agricoltura, si fermerebbero i trasporti, gli alberghi e i ristoranti, le consegne a domicilio, l’assistenza agli anziani e non autosufficienti, e via di questo passo.
Senza gli stranieri la nostra società non sta più in piedi. Questa è la realtà, non sono opinioni. Demonizzare l’immigrazione è disumano, ma è anche incapacità di guardare alla realtà.
Vincenzo Passerini
Scarica il pdf: immigrazione ART 040819
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