Corriere del Trentino – 18 maggio 2024

«Investire oggi per evitare difficoltà in futuro». I segretari di Cgil e Uil commentano i dati Ispat. Alotti: «Nelle valli meno contributi ma più risparmi»

Trento. A fornire una guida attraverso i dati dell’Ispat, ci pensa Walter Alotti della Uil: «Il numero dei pensionati dal 2016, momento in cui si è superato il blocco dovuto agli effetti della Legge Fornero, è in impennata perché sono i “boomer” a ritirarsi dal lavoro. Sono persone che avevano iniziato a lavorare dopo i 20 anni, con un impiego stabile».
La generazione dei nati tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio dei ‘60 in genere riesce a ottenere la pensione di anzianità, ritirandosi dal lavoro prima dei 67 anni necessari per quella di vecchiaia (appannaggio di solito di chi è nato prima). «Gli ultimi provvedimenti governativi — continua il sindacalista — hanno ridotto a zero “Opzione donna”, e le varie “Quota 102” e “103” sono giudicate poco appetibili. La gente preferisce aspettare la pensione d’anzianità». E prosegue: «L’aumento dell’assegno, in media del 3,9% del 2022 sul 2021, sembra un sostanzioso. Ma nel 2022 l’inflazione in Trentino era oltre il 10%. Per cui c’è stato un deperimento del suo valore». Mentre la differenza territoriale è spiegata così: «Nelle valli, dove ci sono le pensioni dell’agricoltura, artigianato e lavoro autonomo, l’assegno è più basso, poiché costoro versano meno contributi rispetto ai dipendenti. Per di più la popolazione è più anziana. Tuttavia, se si facesse una graduatoria dei risparmi, le persone di quelle valli ne avrebbero di più». Insomma, minori contributi si traducono, in quelle zone, in maggiori risparmi in banca.
È invece il segretario della Cgil, Andrea Grosselli, a tracciare la rotta. Cominciando dalla politica: «Se le pensioni non hanno tenuto il passo con l’inflazione, è stata una scelta precisa del governo. Non c’è stato per tutti i pensionati l’adeguamento al costo della vita. Solo pochi hanno ottenuto l’adeguamento al 100%, per gli altri è stato inferiore. In alcuni casi al 50%». Per quanto riguarda le differenze di genere, la questione è annosa: «In passato la propensione delle donne era il “non lavoro”. In famiglia era possibile avere un solo occupato. Poi c’è stato tanto part-time, che è ancora molto forte, con redditi minori. Peraltro le donne hanno sempre fatto più fatica ad avere salari alti. Il mix di queste cose fa diminuire le loro pensioni di vecchiaia». Tuttavia: «Il gap con gli uomini è un trend che diminuirà, dato che c’è più manodopera femminile e sono cresciuti i servizi di conciliazione». Ma Grosselli mette in guardia dal guardare il bicchiere mezzo pieno: «Le donne sono occupate spesso in settori ad alta precarietà: servizi, appalti, ristorazione». Lì non c’è solo il gap salariale: ci sono anche i periodi scoperti.
Da qui la conclusione generale: «Il tema è la stabilità del sistema, dato che avremo pochi lavoratori e molti pensionati in futuro. Quello che bisogna ricordare sempre è che è inutile guardare le pensioni di oggi: bisogna intervenire sul mercato del lavoro, le cui condizioni determinano il futuro. Bisogna rendere di maggiore qualità la domanda di lavoro delle imprese, elevare i salari e spingere l’innovazione. Gli imprenditori facciano gli imprenditori e investano nei processi produttivi: se la produttività delle imprese non aumenta, ci troveremo in difficoltà. Il problema delle pensioni di domani si risolve oggi».

 

 

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