l’Adige – 27 luglio 2023

Sempre più poveri pur con un lavoro

Gli stipendi trentini sono bassi. Più bassi che nel resto del Nordest, più bassi della media nazionale. È un dato tristemente noto. Ma è quando si guarda quanto bassi sono che si comprende come il grido d’allarme che da mesi (tanti mesi) Cgil, Cisl e Uil lanciano all’unisono, è in segno di un’emergenza vera. Le discussioni di questi giorni sul salario minimo arrivano per le fasce più fragili già tardi, rispetto alle aspettative. Per dare un’ordine di grandezza, oltre 55 mila trentini guadagnano meno di 5mila euro, e 48 mila tra 5 e 10 mila euro. Il tutto, in un contesto con l’inflazione degli ultimi anni che ha picchiato al 16%. Parlare di impoverimento costante e di povertà pur in presenza di lavoro, non sembra essere un’esagerazione. E poi ci sono tutti gli altri. Quelli che uno stipendio buono lo avevano, e che a mano a mano che sono passati gli anni se lo sono visto erodere dall’inflazione.
Tanti i motivi dei salari bassi: part time involontari e paghe orarie risicate. Ma anche il mancato rinnovo dei contratti, l’unica opzione per adeguare i salari al costo della vita: rinnovare il contratto diventa in molti casi un’impresa. Anche in settori – su tutti il turismo – che ha vissuto nel 2022 un anno record di presenze.
I numeri. Che i redditi trentini siano più bassi che altrove è cosa nota: lo stipendio medio dei trentini non supera i 20.560 euro, con la media nazionale che è a 21.500 euro. A nord del Lazio fanno tutti meglio di noi, giusto la Val d’Aosta è al nostro livello, con 20.520 euro. Per vedere stipendi più bassi, serve andare verso il centro sud: Umbria, Marche, Abruzzo e tutto il sud. Certo, siamo sotto la media non in tutti i settori – un recente studio dell’Università di Trento ha evidenziato come regge la manifattura, soprattutto la metalmeccanica – ma in tanti sì.
Come detto, sono tanti quelli sotto il minimo: 55.743 contribuenti non superano i 5 mila euro, 48.013 si fermano tra 5 e 10 mila euro. Certo, non tutti sono dipendenti, ma l’85% di chi fa la denuncia dei redditi vive di salario. O almeno ci prova. Perché anche risalendo, come in una scala, sono tanti quelli che vivono sul limite dell’indigenza. Perché a seconda di come si vive, le cifre han-
no un altro significato: guadagnare mille euro al mese essendo in coppia con il coniuge o il compagno che lavora, è una cosa, vivere da soli è tutta un’altra. Avere o non avere figli, cambia il quadro in modo sensibile. Comunque, consapevoli che è difficile fare generalizzazioni, di sicuro non si sciala moltissimo con un reddito un po’ più alto: tra i 10 e i 12mila euro sono in Trentino 20.380 persone, tra i 12 e i 15 mila euro 30.717 e infine – solo per stare sui salari sotto la media trentina-dai 15 e i 20mila euro sono 56.918. Ma restando sui redditi che mettono davvero in difficoltà, con i prezzi attuali, sono più di 150 mila i Trentini che non arrivano a 15 mila euro. Che ci sia un problema di tenuta della domanda, a causa di salari bassi, è più che evidente.
I più fragili. Senza andare a guardare ai contratti pirata, che pur sono un problema anche nella nostra provincia, sono spesso i contratti regolari a creare povertà. I più fragili sono probabilmente quelli della Vigilanza privata: 4,50 euro l’ora, un po’ di più se si porta la pistola. A stretto giro arriva la sanità privata. E poi probabilmente quelli del contratto Multiservizi, penalizzati due volte. «Qui si vive il combinato disposto tra una retribuzione bassa, 7 euro l’ora, con part time involontari – osserva Paola Bassetti, segretaria della Filcams Cgil – sono quelli penalizzati dagli appalti. Perché per risparmiare, è l’ente pubblico che produce povertà. Già la retribuzione è bassa, ma se ti riducono le ore, ti fermi anche a 500 euro al mese». Parliamo di almeno 5 – 6 mila persone, le cui precarie condizioni sono per lo meno ora tutelate dalla clausola sociale: «In passato il meccanismo perverso degli appalti ha determinato una riduzione costante di reddito. Nel 2019 chi lavorava nei servizi portineria si è trovato decurtato lo stipendio di 300 euro. Abbiamo risolto, ma è stato lungo».
E poi c’è il mondo della cooperazione. Le cooperative sociali su tutte, interessate a quel contratto saranno 5 mila persone: «Anche in questo caso, oltre alle retribuzioni basse, perché al netto si può arrivare a tempo pieno da 1.050 a 1.350 euro per 13 mensilità – osserva Lamberto Avanzo – il problema è il part time involontario. E a questo si aggiunge il fatto che molti lavorano sulla base di appalti, e ad ogni cambio d’appalto c’è il rischio di perdere prerogative».
Contratti scaduti. L’unico modo per adeguare gli stipendi al costo della vita, sono i rinnovi contrattuali. E lì da tempo il meccanismo si è inceppato. «Fino al recente sigla del protocollo con la Provincia, sui contratti per i dipendenti pubblici, il 60% dei contratti era scaduto» osserva Walter Alotti segretario generale della Uil.
Il conto l’hanno fatto recentemente Filcams, Fisascat e Uiltuct: quello del commercio, studi professionali (scaduto nel 2018), acconciatura ed estetica (scaduto nel 2022), cooperazione sociale (scaduto nel 2007). La cooperazione di consumo (duemila persone) è in piena vertenza: «Anche qui siamo tra i 1050 e i 1350 euro per 14 mensilità, e anche qui con tanti part time. Questo li fa andare sotto i 15 mila euro l’anno, che con l’inflazione di questi anni significa essere ai limiti della sopravvivenza» spiega Avanzo. Che indica il problema vero: «Sempre più spesso si va a trattativa denunciando che il precedente accordo non è stato rispettato e ci si mobilita non per avere di più, ma per difendere quel che si ha, in una situazione in cui il costo della vita è cresciuto». Senza contare che i tempi lunghi penalizzano per definizione: il multiservizi, per dire, è stato rinnovato nel 2021, era scaduto da 8 anni. E adesso è già vecchio, con l’inflazione che nel 2022 si è impennata.
Soluzioni. «Il problema è che le imprese sono state più pronte a tagliare sul costo del personale che ad investire» è il giudizio di Walter Alotti, segretario generale della Uil. Che vede i problemi – «un laureato a 4 anni dalla laurea non guadagna più di 15 mila euro. Ovvio che se ne va» – ma mette in guardia sulle soluzioni facili: «Il salario minimo è un tipo di soluzione. Ma vorrei ricordare che in un contratto c’è la parte economica e quella che riguarda i diritti. E potrebbe essere di maggior valore proprio quella parte lì per alcuni lavoratori». La chiave di volta, per Alotti, resta la leva fiscale: «Più che la flat tax, serve lavorare in modo diverso sulla progressività delle imposte e invece mi sembra che il governo vada in un’altra direzione, più verso la riduzione delle imposte agli autonomi».

 

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