Il T – 22 novembre 2022

Un anno per una visita oculistica

Se si vuole fare un esame oculistico parziale, operazione raccomandata dai medici ogni cinque anni anche a quanti godono di un’ottima vista, e se si vuole farlo gratuitamente, come sarebbe diritto di ogni cittadino che paga le tasse anche per sostenere il servizio sanitario nazionale, allora bisogna prepararsi ad aspettare un bel po’. E, a meno che non si abiti nella zona dell’Alto Garda, a un bel viaggio in auto. Si va novembre 2023, un anno esatto, e si deve andare per forza a Riva, non ci sono altre sedi disponibili. Neppure in quell’ospedale Santa Chiara in cui la stessa visita si può effettuare già la settimana prossima, a partire da cento euro, in libera professione.
Quello delle liste d’attesa è un tema ricorrente nella sanità trentina, ormai da molti anni. Lo è ancora di più da dopo la pandemia, da quando, cioè, si è creato quel «collo di bottiglia» nelle prestazioni generali con il risultato di una lunga coda che l’azienda provinciale per i servizi sanitari sta facendo di tutto per smaltire.
Quella che arriva dall’esame parziale dell’occhio è una spia significativa: assieme alle visite ginecologiche e a quelle generiche di routine (ad esempio quelle per il rinnovo della patente) è l’unica che può ancora essere prenotata in assenza di ricetta. Inoltre, rappresenta da sempre una specialità critica, a causa delle tante richieste e della scarsità di professionisti disponibili. Su questo tema sono tornati, proprio negli ultimi giorni, anche i sindacati dei pensionati (Cgil Spi, Fnp Cisl e Uilp) chiedendo un incontro all’assessora alla Salute Stefania Segnana segnalando, tra le criticità, proprio «i notevoli ritardi sulle attività legate alle patologie oftalmologiche». Il problema, soprattutto nella fascia sopra gli 80 anni, è legato alla cataratta (e qui la denuncia riguarda la contrazione delle attività chirurgiche) ma è chiaro che, prima di arrivare agli interventi operatori, ci vuole prima la diagnosi. E un anziano che lamenta improvvisi problemi alla vista non può aspettare un anno né, in molti casi, mettersi alla guida.
Se per altre visite specialistiche (a cominciare da quelle ginecologiche, disponibili in pochi giorni pressoché in tutti gli ambulatori dell’Apss, per finire con quelle per il porto d’armi, per le quali non c’è da aspettare manco 24 ore) va un po’ meglio, la situazione peggiora, e non di poco, quando c’è di mezzo la diagnostica. Raggi, ecografia, risonanza magnetica: tutto dipende dal Rao, ovvero dal codice di urgenza. Se la richiesta non è immediata (Rao «A») o breve (Rao «B») si rischia di aspettare molti mesi. Lo confermano i medici di base, con la casistica che hanno sotto mano. «La settimana scorsa — racconta Nicola Paoli, medico in centro storico a Trento e segretario della Cisl medici — una mia anziana paziente è rimasta sconvolta dalla notizia di dover aspettare un anno per la colonscopia. Non voglio nemmeno commentare il fatto che si potrebbe aspettare meno recandosi fuori città. Non posso mandare una persona senza patente e senza una rete che la sostenga da una frazione di Trento a Fiera di Primiero».Paolo lancia una possibile soluzione: «Ci vorrebbe un “Rao argento” per venire incontro alle necessità di questa fascia d’età». Quindi, un’altra idea che suona un po’ come una provocazione: «Vanno cambiate anche le lettere che identificano l’urgenza. L’utenza ormai le ha imparate e se non prescriviamo un “A” i pazienti ci insultano».
Una dinamica che anche Roberto Adami, sindacato Snami e medico di base, conosce bene. «È inutile parlare di appropriatezza — avvisa — se poi i medici sono costretti in certi casi a forzare un po’ i Rao per garantire i tempi necessari». Eppure, dai dati che l’Apss diffonde ogni anno (gli ultimi sono del 2021) quasi tutte le prestazioni da erogare entro i 30 giorni risultano «puntuali». «Purtroppo — è il commento di Adami — dai nostri riscontri non risulta essere così. Si sforano spesso anche le urgenti».
Certo, l’alternativa è pagare. Sul tema del rapporto tra libera professione (un diritto del medico esercitarla) e assistenza sanitaria universale si è espresso più volte l’ordine professionale. «I colleghi — è la posizione di Marco Ioppi, presidente dell’Ordine dei medici — devono prima garantire il servizio pubblico. È brutto che i pazienti si sentano dire che una prestazione può essere erogata a un giorno invece che a sei mesi, pagando. Ed è brutto, soprattutto, che se lo sentano dire dal Cup. Per questo servirebbero due numeri distinti, uno per le prenotazioni del servizio sanitario nazionale, uno per le attività extra moenia».

 

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